venerdì 10 febbraio 2012

Globalizzazione e diversità

   Che la globalizzazione sia più un male che un bene pare ormai assodato. Se pensiamo alla globalizzazione della conoscenza, intesa come condivisione della piattaforma di partenza per l'esplorazione di nuove tecnologie, parliamo di un fenomeno ritenuto dai più positivo, ma se parliamo della globalizzazione della cultura siamo di fronte ad un appiattimento, forzato dall'adozione di modelli “universali” che, in virtù di un maggior potere mediatico, si impongono a livello globale scalzando quelli indigeni.
Questo adottare dei modelli universali, oltre ad impoverire quella che definirei la “sociodiversità”, porta tutti coloro che vivono in realtà economiche diverse da quelle nelle quali i modelli si sono sviluppati e non in grado di sostenerne gli oneri, a divenire automaticamente “poveri”. Pensiamo, senza voler assolutamente fare considerazioni di tipo politico, agli ultimi 30 anni di Cuba. I Cubani, prima del turismo selvaggio, non si sentivano poveri. Lavoravano (poco), mangiavano (poco), potevano accedere all'educazione e disponevano delle cure mediche necessarie. Forse qualcuno di loro avrebbe voluto qualcosa di diverso ma erano, in linea di principio, una popolazione orgogliosa del proprio status. Con l'arrivo del turismo, della televisione e di internet, le cose sono cambiate. I modelli proposti ai giovani non sono sostenibili dall'economia Cubana, quello che gli stati uniti non sono riusciti a fare con le armi, l'anno ottenuto con i media, trasformando Cuba in una nazione di poveri, infelici della propria condizione e pronti a prostituirsi in tutti i modi, anche in senso letterale, pur di conquistare “un posto al sole”, falso paradigma proposto da una cultura dei media che tende a mostrare un solo lato della verità e, spesso, a mostrarlo pure distorto.
   Domandiamoci ora se l'asserzione iniziale relativa all'aspetto positivo della globalizzazione della conoscenza sia vera. Ebbene, credo di no. La conoscenza viene appiattita dalla globalizzazione. Punti di partenza simili portano a risultati simili, mascherando percorsi alternativi che non vengono più scoperti. Migliaia di scienziati, nell'accezione odierna del termine, passano i loro anni più fecondi riproducendo lo stesso esperimento a chilometri di distanza infinite volte, confondendo il processo creativo con la capacità di riprodurre e misurare. Il sistema premia questo fenomeno, la carriera, in ambito scientifico, si fa con le pubblicazioni, valutate in linea di principio a peso e il proliferare di migliaia di riviste disposte a pubblicare e ripubblicare le stesse cose, pur di poter riempire le pagine, incentivano questo modo di operare.
   Lo stesso appiattimento lo riscontriamo, oggi, nel cinema, nella televisione, nelle letture e persino nel cibo. I gusti personali, formati fin dall'infanzia ad apprezzare le stesse cose, tendono ad uniformarsi. Presto, quando i nostri figli, di fronte ad un piatto non gradito, diranno “è cattivo” non avremo più motivo correggerli dicendo che, al massimo, possono dire “non mi piace”, perché buono e cattivo diventeranno degli assoluti, rendendo assolutamente impossibile la creazione di nuovi piatti. Questo vale anche per i romanzi, che tendono ad assomigliarsi sempre di più, per le trasmissioni televisive, che sembrano fatte con lo stampino, e per i film, dove la ricetta è sempre più consolidata.
   Un ulteriore problema legato alla globalizzazione è quello della lingua. La semplicità strutturale e l'ampia diffusione della lingua inglese stanno trasformandola nella lingua di scambio universale. La maggior parte delle conoscenze disponibili in ambito tecnico vengono ormai diffuse in questa lingua, la maggior parte degli scienziati moderni la conosce perfettamente, la impiega quotidianamente e ne utilizza i termini anche quando parla nella propria, arrivando ad utilizzarla in esclusiva per ogni comunicazione relativa alla propria attività. Questo fenomeno, a prima vista positivo, oltre ad impoverire tutti gli altri linguaggi, che stanno subendo un irreversibile processo di anglicizzazione non solo in termini di vocabolario, ma anche in termini di struttura, porta tutti gli scienziati a “pensare in inglese” e la lingua che si usa, è noto, influenza il pensiero. Questo, unito ad una base culturale comune, porta ad un ovvio impoverimento della scienza.  
   Riassumendo, la globalizzazione annulla le diversità. La biodiversità, la sociodiversità, la diversità delle conoscenze, la diversità dei gusti e la diversità del linguaggio. Ora, non credo di aver scoperto l'acqua calda, ci sono milioni di persone che aderiscono in un qualche modo al movimento anti globalizzazione nel mondo, ma credo che pochi di loro vedano il fenomeno da questo punto di vista. L'idea originale del movimento no global, infatti, è quella di restituire attraverso i governi il potere decisionale ai cittadini togliendolo dalle multinazionali che, di fatto, pilotano i destini del mondo secondo una logica di profitto fine a sé stessa che non produce benessere consumando invece le risorse a velocità record. Niente da dire, si tratta di un ottimo punti di partenza e credo che nessuna persona ragionevole potrebbe negarlo. Tuttavia non è il solo problema. L'appiattimento è un altro problema grosso, che non si può risolvere solo agendo sulle multinazionali, ma che deve essere studiato e combattuto (e presto, prima che sia troppo tardi) riconoscendolo per un nemico subdolo e pericoloso. Tutte le diversità, e non solamente quella biologica, sono indispensabili per garantire la reazione dell'intero sistema ad eventuali crisi e stravolgimenti, perderle significa mettere a repentaglio la sopravvivenza della razza umana e, forse, della vita come noi la conosciamo.
 

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