domenica 12 febbraio 2012

il gatto geriatrico

Gatta
   Ero un bambino quando la mia sorella minore portò a casa la micia. La cosa, un po', seccava me e l'altra mia sorella. Per anni avevamo chiesto, e non ottenuto, il permesso di prendere un gatto. Io, addirittura, una volta avevo portato a casa un grosso randagio tigrato, rosso e bianco, che, non appena si era reso conto di essere rinchiuso fra delle mura, si era scatenato, cercando una via di fuga e finendo per rifugiarsi in cima ad un mobile, posizione arroccata dalla quale solo mio padre, con l'aiuto di alcuni stracci per fasciarsi le mani, era riuscito ad allontanarlo, guidandolo verso la porta di casa. Ovviamente non mi avevano permesso di tenerlo. Mia sorella, invece, c'era riuscita, e la micia era entrata in casa, se non desiderata, almeno tollerata, anche se nessuno, in realtà, le diede mai un nome, al punto che, per tutta la sua vita, è sempre stata convinta di chiamarsi Gatto o Micia, a seconda delle circostanze.
   Comunque, malgrado il fatto che, in un qualche modo, è sempre riuscita a farsi servire da tutti, la bestia è sempre stata solo ed indiscutibilmente di mia sorella. La mattina saltava sul mio letto, giocando a prendere i miei piedi da sopra le lenzuola fino a che io, disperato, non le aprivo la porta di cucina in modo che potesse mangiare e smettere di tormentarmi, ma era la gatta di mia sorella. Dormiva, tutti i pomeriggi, sulla pancia di mio nonno, durante il suo sonnellino, ma era la gatta di mia sorella. Era nutrita con cura estrema dal suddetto nonno, che le tritava la carne in parti piccolissime prima di mescolarla al riso, ma era la gatta di mia sorella. La sua cassettina era vuotata e lavata da mia nonna, ma era la gatta di mia sorella.
Micia
   Era tigrata, sul dorso, e candida sul petto e sulla pancia. Gli occhi, di un verde inquietante, ed il nasino rosa, colori come oggi, alle volte, si vedono nei norvegesi, solo che lei era minuscola e a pelo corto, con la coda tronca ed annodata tipica dei bastardi siamesi. Era, insomma, un piccolo concentrato di tutte le razze, se non del mondo, per lo meno del quartiere. Andava in calore, come tutte le femmine, con certi lamenti che potevano privarti del sonno ma, piccola com'era, non avrebbe potuto partorire cuccioli vivi e così, ignoranti delle possibili conseguenze, le facevamo fare "la puntura", una bombardata di ormoni che sarebbe stata sufficente per dieci gatti della sua corporatura. Così, come prevedibile, i primi tumori, quando lei aveva nove anni. La facemmo operare, due volte, da un veterinario di Bologna, finchè un'estate, in montagna, il gatto non stette male in modo strano. Non si muoveva, non mangiava, soffriva, evidentemente, specialmente se lo toccavamo. Di portarlo a Bologna neanche a parlarne, ma in paese c'era un veterinario, un argentino, che curava anche i piccoli animali, e la portammo da lui. Ostruzione intestinale, la diagnosi, niente di grave, e difatti ce la restituì, dopo un paio di giorni, con un vistoso collare Elisabetta ed in forma perfetta, cioè intrattabile.
   A questo punto della storia devo per forza dire qualcosa sul carattere della micia. Era piccola, è vero, ma straordinariamente "densa", come se tutti i suoi muscoli fossero stati costruiti del migliore acciaio e compensava la sua stazza ridotta con una ferocia inaudita ed una cieca determinazione, che ricordava un po' quella dei samurai che, dopo un giorno di meditazione ed esercizi di respirazione, sconfiggevano da soli un esercito. Il suo mantello era sempre perfettamente pulito, se qualcuno la sfiorava, passava ore intere a leccarsi, per allontanare l'odore non desiderato e, forse per questo, non tollerava l'essere toccata o accarezzata in nessun modo. Bastava sfiorarla per scatenare una rappresaglia di graffi e morsi in grado di far desistere chiunque. Si aggrappava al braccio dell'incauto con le zampe anteriori, le sue armi meno pericolose tutto sommato, malgrado gli artigli affilati come rasoi, mentre mordeva a sangue la mano e, con le zampe posteriori, scalciava procurando dei profondi graffi slabbrati che neanche camicia e maglione riuscivano a prevenire, e tutto questo con una rapidità ed una ferocia che lasciavano inermi. Accettava di essere toccata solo da noi, e solo se era lei ad iniziare il contatto. Se, ad esempio, ti si accoccolava in grembo, in cerca di calore, e tu la spingevi delicatamente via con la mano, di solito non reagiva, o si limitava ad un piccolo morso dimostrativo, come pure accettava di essere spazzolata, anche se non troppo spesso, ma odiava con determinazione i veterinari e tutti gli altri animali.
   Per questo, portandola da un veterinario che non la conosceva, ci era venuto spontaneo avvertirlo "guardi che è cattiva, dottore" ma lui no, come se fosse stato un gatto di peluche, la maneggiava indifferente e lei...lei non reagiva, forse ipnotizzata da quel suo accento esotico. Inutile dire che la cosa ci colpì moltissimo. Il dottore argentino aveva "domato" la micia, incredibile. Fu per questo, forse, che, quando il tumore si fece nuovamente vivo, ed il veterinario abituale si rifiutò di operarla sostenendo che, alla sua età, non avrebbe sopportato l'intervento, la portammo dal veterinario argentino che, in breve, da allora la operò altre tre volte. L'ultima, quando lei aveva passato da qualche mese i ventitré anni, gatto ormai vecchio e "leggero", ma non per questo meno combattivo. Tornò a casa, dopo l'intervento, provata ma ancora attiva, troppo persino perché, dopo qualche giorno, in piena convalescenza, uscì non vista in terrazza dove rimase, nella neve, un paio d'ore prima che ci accorgessimo della sua assenza e, dopo averla trovata, la riportassimo in casa.
   In seguito a questo incidente, si ammalò di polmonite e, ancora troppo provata dall'intervento, morì, triste fine per un piccolo indomito guerriero che, ne sono certo, avrebbe preferito lasciarci in un turbine di zanne ed artigli, durante uno dei mitici combattimenti che ingaggiava con qualunque animale avesse la ventura di incontrarla.

Nessun commento:

Posta un commento